L’anima e il corpo: sguardi sul legame tra musica classica e musica popolare

a storia della musica è disseminata di episodi dove si è felicemente realizzato lo scambio tra l’ambito della musica colta e il repertorio musicale popolare, specie nei casi dove la fusione sia stata autentica e capace di fondere i due diversi spiriti alla base del fenomeno musicale. Infatti, forse, non è stato sempre all’insegna di una sincera volontà d’incontro che sono stati fatti tentativi di avvicinamento da parte dell’una e dell’altra; spesso a spiccare  è stata piuttosto la volontà di riuscire ad estendere le possibilità di un certo materiale musicale per farlo rientrare nel proprio campo creativo.

Prima di osservare una breve galleria di esempi a tal riguardo, occorrerà porsi una domanda: cos’è che spinge il popolare e il colto a venirsi incontro, e, in particolare, come si attua ciò nella musica? La domanda spiana la strada ad una questione culturologica e musicologica estremamente rilevante, che potrebbe occupare ampio spazio di discussione — di certo non esauribile in questa sede  — in cui, però, si potranno accennare dei percorsi di risposta.

Come si misura questa “sincerità”? Innanzitutto, nel determinarla non si grida alla menzogna nei confronti degli altri tentativi, ma se ne evidenzia una diversa intenzione, uno sguardo trasversale al genere differente e non diretto al centro di esso. Ad esempio, per iniziare ad addentrarci nella questione, l’uso di melodie popolari da parte di un Brahms o di un Liszt all’interno di loro composizioni non è certo segno di atteggiamento superbo nei confronti di quest’ultime, ma, come si accennava in precedenza, di uno sguardo trasversale: un esercizio di stile, o un esempio di ampliamento dello spazio compositivo esplorato egregimente da maestri della storia della musica, certamente, ma non sempre diretti al cuore pulsante del popolare.

Non è l’orchestrazione, la “complessificazione” del materiale sonoro a rendere più verace l’incontro tra le due sfere, ma appunto la visione diretta verso il nucleo fondativo di questi due mondi. Come si potrebbe non troppo difficilmente immaginare, talvolta risulta più semplice che sia il repertorio colto a compiere il passo decisivo ai fini di questo incontro: ciò avviene in nome della flessibilità astrattiva che lo contraddistingue e per il fatto di attingere molto più dal sé individuale del compositore che dall’inconscio sonoro collettivo, composto di musica e tradizioni mantenute in vita e perpetuate in funzione dell’appartenenza al “popolo”. È difficile immaginarsi che nel complesso delle musiche popolari gitane si vada oltre il semplice adattamento di una melodia di Beethoven o Mozart per l’ensemble strumentale tipico di quella cultura. Mentre molto più concreta appare la possibilità che il compositore si addentri nel cuore del popolare così da sublimarne le forze in esso intrinseche, giungendo in alcuni casi a vette tra le più alte di tutta la storia della musica.

Ogni esempio di questo rapporto meriterebbe uno studio a sé, che ancor oggi apre a campi di studio inesplorati, forse a causa dei caratteri stessi della musica colta e di quella popolare: quest’ultima si sprigiona soltanto nel vivente manifestarsi ed eseguirsi, e pertanto risulta impossibile intesserne il carattere su carta e pentagramma; invece quella colta si mostra inafferrabile e ineffabile nella sua astrattezza compositiva che la rende in-aderente a qualsiasi imposizione da parte del compositore, sfuggente verso la purezza estrema del concetto o verso la pura materialità sonora di cui si sia ricercato il perfetto armonizzarsi, talmente perfetto da rendere obbligatoria la ricerca esecutiva adeguatamente perfetta conformemente a quella carta, simbolo esatto del connubio incessante tra materialità della carta e purezza formale del concetto musicale.

Nonostante questo apparente abisso, i due sentieri sgorganti musica sempre nuova non hanno mai smesso di incrociarsi anche in piena sincerità intenzionale, seppur con risultati diversi a seconda dei contesti o degli interpreti.

Ogni paese è un mondo

La storia della musica generalista tende, da sempre, ad amalgamare strade diverse in un unico grande sentiero, spesso illusorio nel mostrare una linea perfettamente retta dove, nel tempo, a ruota si susseguono tanto Rameau quanto Mozart, tanto Pergolesi quanto Gershwin. Non si parla di certo di rivoluzionare la storia della musica per come la conosciamo (e, in realtà, lo studio della storia stessa), ma di porre qui l’attenzione anche a quell’ambito che riguarda le storie regionali. È solo la centralità di un luogo nella storia la causa che provoca una mole di compositori di scuola colta rispetto ad un emergere del popolare, oppure c’è anche un significato più squisitamente antropologico sotteso a questi sviluppi?

Ancora una volta, la domanda si rivela complessa e aperta a diverse interpretazioni e risposte, ma ciò che si può dire con certezza è che ad essa non si può rispondere con un semplice “sì” affermativo: come si spiegherebbero anni di dominio spagnolo sul mondo  — l’impero dove mai tramontava il sole — e il numero esiguo di compositori iberici ricordati e studiati nella storia della musica, rispetto alla Germania (o, più generalmente, l’ambito germanofono) che incessantemente produceva giganti rispetto alla Spagna? L’esempio qui addotto ci aiuta a riaprire la questione del rapporto tra colto e popolare, poiché vi sono nazioni, territori che hanno avuto una tradizione musicale popolare così forte da soppiantare completamente una produzione musicale colta d’ampio respiro, finendo spesso anzi con l’inghiottirla.

Si potrebbe azzardare che dove sia stata molto presente e importante la cultura astratta e razionale, come in Germania, sia abbondante e sterminato l’elenco di compositori “colti”,  mentre in paesi dove appare predominante il repertorio popolare anche la stessa cultura filosofica e speculativa sembra meno sviluppata, come Spagna o Irlanda, per far qualche esempio. Come detto, ciò potrebbe apparire azzardato e assai opinabile, o semplicemente occorre una più complessa interpretazione, ma, in effetti, la storia intera di alcune zone del mondo tace nei capitoli dei testi sulla storia della musica colta. Trascurando l’infelice scelta di tralasciare quasi per intero ciò che è extra-europeo — dove in realtà musica colta e popolare sembrano svilupparsi in simbiosi — anche in Europa ci sono regioni (come appunto l’Irlanda) che non sembrano avere spazio nella storia musicale, dove la pratica musicale è più diffusa a livello popolare, e invece il catalogo di compositori risulta oltremodo ristretto,. Oppure, a non voler andar lontano dalle tradizioni del Belpaese, è noto come nel Sud Italia, ad esempio, sia assolutamente più viva la memoria delle danze popolari o di canti tradizionali, rispetto a compositori imponenti come Cimarosa o Paisiello, che pure avevano prestato attenzione alle tradizioni popolari nelle loro composizioni.

Lo stesso fenomeno avviene nelle terre dell’Est europeo, dalla Russia alla Bulgaria, dalla Polonia fino all’Ungheria, dove i ritmi e le melodie popolari dominano il panorama musicale, e dove costantemente sono avvenuti incontri sinceri, come nei casi di Béla Bartók, Dvořák, o lo stesso Chopin, maestri, questi ultimi, nell’intercettare l’anima della composizione e fonderla sapientemente con quella della melodia popolare.

 

Altro esempio di pregio a tal riguardo, su cui riteniamo necessario soffermarci per la sua emblematicità, sussiste nel caso spagnolo. Compositori come De Falla, Albeniz, Granados o Turina, fanno del connubio tra gli archetipi musicali del territorio e lo studio accademico di stampo più classico il loro materiale compositivo vivo. I nomi stessi, come la nota suite Iberia, si rifanno alla massa di elementi tipici della cultura del luogo d’origine del compositore. Viene presentificato il sostrato più drasticamente popolare, l’inconsapevolmente popolare, la linfa sonora che permea e dà vita a tutto il tessuto territoriale e sociale spagnolo. I rumores de la caleta, la processione del Rocìo, i colori variopinti del giardino dell’Aranjuez, vengono espressi in musica, affinché se ne senta la carne, l’odore. Queste immagini acquisiscono quasi consistenza, grazie ad esse il compositore si cala in mezzo al popolo, tra una via di Siviglia o un piano della Meseta, ne tocca la mano ruvida attraverso un contatto più epidermico di quanto si possa comprendere ad una prima rapida occhiata.

Eppure, proprio in questo atto, che parrebbe rappresentare soltanto una riproposizione a livello accademico di reminiscenze delle proprie origini e quindi materiale popolare rielaborato, questi compositori non solo si sono calati nella realtà popolare di cui sono originari, ma hanno altresì affrontato l’anima più nitida del processo compositivo. Spesso lontani dalla propria terra al tempo in cui si trovarono a comporre siffatte opere, gli autori hanno attinto dalla loro memoria, all’organico deposito impersonale contenuto in essa dove si snodano le radici che li legavano ai loro luoghi di origine. Così facendo hanno trasfigurato i ricordi nell’atto di viverli così carnalmente, da penetrarne il nocciolo ideale, lo spirito profondo antecedente e cooriginario rispetto alla carne di cui questi brani si fanno esperibile vissuto e, nell’avvicinarsi più “bruto” alla materia, ne hanno raggiunto la dimensione più concettuale.

Le ragioni di un necessario incontro

Il colto sembra ricercare nel popolare l’energia propulsiva alla creazione, ossia quella matrice originaria all’atto creativo del comporre, denotata dall’incessante necessità di produrre qualcosa di universale non solo a livello ideale, ma anche incarnato. Da ciò deriva il bisogno di fissare questo universale che nel popolare invece è costante vivere corporeo: qui voce e corpo sono centrali più degli strumenti, che vengono dedicati invece ad evocarne la nucleità indigena. Il popolare, quando riesce a farsi prossimo all’incontro con il colto, nonostante l’astrattezza che in esso pare regnare, potrebbe trovare, proprio nell’astrattezza e idealità della musica colta, la possibilità di rendere il suo ruolo in maniera concreta, la possibilità di immedesimarsi plasticamente anche nell’atto astratto creativo e compositivo. Sono gli incontri stessi a dimostrare, in plurimi casi, che la schematica e ipostatica divisione tra astrattezza colta e carnalità popolare appaia stantìa e svilente nei confronti della plasticità fluida e ineffabile del fenomeno musicale, sempre uno e plurimo.

In piena epoca di “pop music” la linea di demarcazione tra il popolare e il colto si è fatta ancor più ampia, dopo secoli di continui incontri-scontri che avevano finito per influenzare e stimolare ambedue i poli culturali. Di fatto, dove l’espressione popolare nasceva in virtù di una sua spinta propulsiva generata dal basso, con l’avvento della produzione musicale massificata gli stessi gusti popolari vengono imposti dall’alto, con meccanismi ipercontrollati di turnover e sofisticate strategie di marketing. Se il popolare, quindi, assume lo sguardo del “pop”, che ne rapisce i meccanismi originari per sfruttarli a vario titolo, la musica colta finisce relegata in un angolo, per via della sua natura ripropositiva e conservativa, opposta a quella dell’economia dell’industria musicale.

Se questi risultati potranno apparire sconfortanti, d’altro canto la musica classica e la musica popolare continuano a generare interpreti e appassionati in tutto il mondo nel corso degli anni, e non è detto che l’intorpidimento industriale non generi, prima o poi, una decisa risposta. Necessario è che entrambe preservino il loro nucleo al momento dell’incontro, al fine che esso appaia realmente fecondo e capace di andare oltre l’in-differenza del musicale di massa (e non più popolare) che si fa sempre più dominante ed alienante rispetto all’infinita possibilità della strutturale universalità della musica che, colta e popolare, carnale e spirituale, si mostra sempre in transito e innatamente relazionale.

 

Lorenzo Pompeo

Fonte  Quinte Parallele